Settanta anni fa, per la precisione nel dicembre 1951, il marchio di Arese iniziò a produrre la sua prima fuoristrada in risposta alla Fiat Campagnola. Tutto nacque dal bando del Ministero della Difesa per la realizzazione di un mezzo da ricognizione, in grado di sostituire le fuoristrada lasciate dagli alleati dopo la seconda guerra mondiale e utilizzate dall’Esercito e da Polizia e Carabinieri. Il suo successo crebbe tanto nel 1952, proprio 70 anni fa.

 

Il prototipo su base Land Rover 80

Il progetto fu affidato al team guidato da Giuseppe Busso, ai tempi giovane ingegnere arrivato dalla Ferrari e destinato ad entrare nei libri di storia dell’Alfa Romeo grazie al motore “V6 Busso”. A causa del poco tempo a disposizione si decise di partire da una Land Rover 80, acquistata tramite un concessionario svizzero, modificarla nella carrozzeria – in particolar modo nel frontale – e montarle il motore “serie 1306” all’epoca dell’Alfa Romeo 1900 Berlina.

 

Debutto a Monza

Per rientrare nelle specifiche fornite dal Ministero furono fatte diverse modifiche, a partire dai rapporti del cambio più corti, dagli sbalzi contenuti, dalla lubrificazione a carter secco e dal blocco del differenziale. Il debutto davanti al grande pubblico dell’Alfa Romeo 1900 M – questo il nome del mezzo – avvenne sul tracciato di Monza in occasione del Gran Premio di Formula 1; guidata dal Campione in carica Nino Farina, la fuoristrada del Biscione fu fatta sfilare in testa a un corteo di auto sportive.

 

Il soprannome “Matta”

Dopo una serie di ulteriori prototipi, il primo esemplare tutto Alfa Romeo della 1900 M AR 51 (acronimo di Autovettura da Ricognizione 1951) era pronto e stupì per le sue capacità: riuscì a salire la scalinata della Basilica di Assisi o il “Monte Stella” a Milano. Battezzata “Matta” dal direttore generale Alfa dell’epoca dopo averla vista in azione, la 1900 M non vinse la commessa del Ministero ma fu prodotta in oltre 2000 esemplari fino al 1955.

 

Non solo mezzo militare

La prima serie AR 51, fu destinata prevalentemente ai Ministero della Difesa, all’Arma dei Carabinieri e alla Polizia Stradale, mentre la seconda serie, prodotta dal 1954 e battezzata AR 52, fu realizzata esclusivamente per il mercato privato. Tra i prototipi costruiti, tra cui un’insolita turbina spazzaneve, spiccava la versione Giardinetta con carrozzeria chiusa, vera e propria antesignana del concetto di Suv.

 

65 CV di potenza, 4 marce.

Quanto al motore, sotto al cofano batteva il bialbero con cilindrata di 1884 cc e potenza massima di 65 cavalli a 4400 giri/min, contro i 53 CV a 3700 giri/min. della Fiat Campagnola. La trasmissione era affidata a un cambio a quattro marce con riduttore e frizione monodisco a secco, mentre la trazione era posteriore e in caso di necessità diventata integrale grazie a un comando meccanico. Sul fronte delle sospensioni, era stato scelto uno schema a ruote indipendenti all’anteriore con bracci trasversali e barra di torsione longitudinale, mentre al retrotreno la fuoristrada Alfa Romeo montava un assale rigido con balestre longitudinali e ammortizzatori idraulici a leva. Dotata di freni a tamburo sulle quatto ruote, la Matta era in grado di raggiungere i 103,5 km/h di velocità massima.

 

Una fuoristrada vera

Lunga soltanto 3,52 metri, la “Matta” – grazie all’altezza minima da terra di 20,5 centimetri e a una serie di accorgimenti meccanici – aveva una capacità di guado di ben 70 centimetri. Il vero dato record arrivava dalla pendenza massima superabile, il 120% contro l’85% della Campagnola; per fare un paragone con un modello attuale, la Jeep Wrangler si ferma al 100%.

 

Prima di categoria alla Mille Miglia

Grazie alle ottime doti del motore bialbero 1900, nel 1952 l’Alfa Matta partecipò all’unica edizione della Mille Miglia in cui furono ammessi veicoli militari. Guidata del tenente Antonio Costa e del maresciallo Francesco Verga, tagliò il traguardo a Brescia in meno di 17 ore con un distacco di 40 minuti sulla seconda della sua categoria. Quanto vale oggi un’Alfa Romeo 1900 M Matta? Molto rara sul mercato, un esemplare in ottime condizioni può superare i 30/40 mila euro.


Compiono 30 anni nel 2022. Prima di svelare l’identikit dei modelli, ecco i brand: Ferrari, Alfa Romeo, Subaru, Dodge e Hummer, case che hanno legato il proprio successo (anche) ad alcune auto per la prima volta prodotte nel 1992. Parliamo di auto che rientrano a pieno titolo tra le “youngtimer”, osservate a distanza di tanti anni, oggetti del desiderio per molti appassionati se si ritorna idealmente a quel primo scorcio di anni Novanta che le videro protagoniste di saloni e rassegne.

 

ALFA ROMEO 155 RACCOGLIE IL TESTIMONE DELLA MITICA ALFA 75

 

L’obiettivo dell’Alfa Romeo 155, presentata nel 1992, faceva rima con il non semplice compito di raccogliere il testimone dell’Alfa 75, vettura rimasta nella memoria e nel “cuore” di tanti alfisti. Il risultato? Positivo, specialmente se si considerano i successi nelle gara in pista che la berlina del Biscione conquistò anche a livello internazionale. Un esempio? Il campionato Dtm, vinto nel 1993 con Alessandro Nannini e Nicola Larini al volante della 155 V6 TI mossa dal motore V6 da 2,5 litri da 420 Cv a 12.000 giri/min, dotata di trazione integrale. Un anno che vide Larini laurearsi campione tra i piloti, osservando negli specchietti retrovisori la concorrenza tedesca. Tra i successi nelle competizioni anche quello siglato nel British Touring Car Championship da Gabriele Tarquini, sull’ Alfa Romeo 155 “Silverstone” – elaborata dalla serie speciale omonima –, l’ultimo titolo internazionale conquistato dallo “squadrone” ufficiale Alfa Corse.

L’Alfa Romeo 155 viene presentata nel 1992 nella versione berlina tre volumi: sotto il cofano il motore anteriore trasversale, l’unità quattro cilindri benzina 8 valvole da 1.773 cc, in grado di erogare 126 Cv di potenza e di toccare una velocità massima di 180 km/h. La berlina di segmento D per la prima volta in casa Alfa abbandonava la trazione posteriore, passando a quella anteriore. Prodotta in poco più di 195 mila esemplari, tra il 1992 e il 1998, nelle due generazioni di Alfa Romeo 155 occupano un posto di primo piano alcune versione, per esempio la 2.0 Twin Spark 16 valvole con potenza di 150 Cv, con un peso in ordine di marcia di 1.340 kg, che fermava il cronometro a 208 km/h.

 

DA DODGE NASCE LA VIPERA DA 400 CAVALLI ISPIRATA DA LAMBO

 

Cofano allungato, carrozzeria “muscolosa”, estetica e prestazioni da sportiva con l’iniziale maiuscola: un’americana moderna che ha lasciato tracce indelebili. Nel 1992 appariva sul mercato la Dodge Viper, progettata in collaborazione con Lamborghini, che sotto il “vestito” montava un V10 realizzato in alluminio in grado di erogare da 400 Cv con 664 Nm di coppia abbinato alla trazione posteriore. Le prestazioni? La VIPERA americana toccava i 264 km/h di velocità di punta. La prima generazione della vettura – prodotta fino al 2002 – venne lanciata con carrozzeria tipo “targa”, il modello RT/10, quindi nel 1996 la gamma si allargò con la Gts (coupé).

 

FERRARI 456: MOTORE V12 ED ELEGANZA INIMITABILE

 

Coupé due posti più due del Cavallino Rampante presentata nel 1992: la Ferrari 456 rinnovava la tradizione delle Gran Turismo di Maranello e si caratterizzava per il motore V12 in posizione anteriore con cilindrata di 5.474 Cmc (la sigla, “456”, rappresenta la cilindrata unitaria) con potenza massima di 442 Cv e 550 Nm di coppia, abbinato al cambio manuale a 6 rapporti (più tardi venne introdotto anche un automatico a 4 velocità sulla versione Gta). Le prestazioni? La Ferrari 456 GT, firmata da Pininfarina, e rimasta in produzione per il periodo record di 11 anni, toccava i 309 km/h, con uno scatto da 0 a 100 km/h in 5,2 secondi. Tra i segni particolari sul fronte dell’estetica i fari anteriori a “scomparsa”, mentre l’abitacolo era votato al comfort, con sedili e interni in pelle. La Ferrari 456 GT venne aggiornata nel 1998 con la versione 456 M (come “Modificata”) GT, con interventi lievi, in particolare nel design dei paraurti, nella calandra ridisegnata (per inglobare i fendinebbia) e nei fari anteriori e posteriori. Risalgono al 1996, invece, gli speciali esemplari (sei) commissionati dal sultano del Brunei: si trattava di Ferrari 456 “Venice” con carrozzeria tipo famigliare “shooting brake”.

 

HUMMER H1: QUEL MARTELLO INARRESTABILE

 

L’idea poteva apparire quantomeno bizzarra, ma ottenne un notevole successo, per quanto all’interno di una nicchia di mercato. Passare dalla produzione di un veicolo destinato al solo utilizzo militare a una versione di un mezzo 4×4 “inarrestabile” destinato al pubblico civile. Nacque così in casa AM General, nel 1992, il primo Hummer H1 stradale. Il costruttore americano dell’Indiana, che produceva già l’Hmmwv (“High Mobility Multipurpose Wheeled Vehicle”), noto come “Humvee”, lanciò sul mercato il primo modello civile chiamandolo Hummer H1. La prima serie del fuoristrada montava il propulsore V8 a gasolio da 6,5 litri, con una potenza di 185 Cv e una coppia massima di 798 Nm, e nonostante la massa esagerata pari a 3.429 Kg era in grado di viaggiare a 145 km/h.

Questa prima generazione di HUMMER H1 rimase in produzione fino al 2002, quando il modello venne aggiornato e sul fronte meccanico venne introdotto il motore V8 turbodiesel da 6,6 litri con potenza di 295 Cv.

 

SUBARU IMPREZA GIOIELLO DESTINATO AI TRIONFI NEI RALLY

 

Una vettura a trazione integrale con un Dna decisamente sportivo. Correva l’anno 1992 quando la Casa delle Pleiadi presentava la prima Subaru Impreza, disponibile nelle versioni berlina tre volumi, station wagon oppure coupé, quest’ultima mai approdata in Italia. La prima Subaru Impreza montava un motore boxer da 1,8 litri e 101 Cv di potenza; la gamma venne aggiornata, quindi, con le unità turbo da 2 litri e 211 Cv (versione Wrx), e gli aspirati da 1,6 e 2 litri. L’apparizione della Subaru Impreza , progettata anche tenendo conto delle declinazioni sportive che la vettura avrebbe interpretato, andando a sostituire la precedente Legacy, produsse un immediato riscontro nei rally. Già nella stagione 1993 l’Impreza nell’inconfondibile livrea blu fece capolino nei rally, dove la vettura ottenne i titoli iridati costruttore e piloti nel 1995, con Colin McRae. La prima generazione rimase in produzione fino al 2001.

 


È il novembre 1966 e al centro espositivo del Valentino si apre il Salone dell’Automobile di Torino. Una giornata di 55 anni fa che Maserati vuole ricordare come una delle tappe più importanti della sua lunga storia dato che – a quell’evento – venne esposta per la prima volta presso lo stand Ghia del Salone di Torino, la splendida coupé a due posti Ghibli.

 

Nasce una nuova interpretazione del concetto di vettura gran turismo, disegnato da Giorgetto Giugiaro che descrive così le caratteristiche della Ghibli: ‘Uno straordinario cofano particolarmente lungo e piatto, una calandra a tutta larghezza, fari a scomparsa, un parabrezza fortemente angolato, ampie luci di posizione che terminavano in un segmento verticale e fiancate estremamente pulite nonostante la linea della vettura risultasse molto mossa. Il posteriore era piuttosto alto, per motivi sia aerodinamici che funzionali.

 

Perché partendo da quel prototipo – diventato modello di produzione l’anno successivo – la Casa del Tridente ottiene importanti successi commerciali (vende come la Ferrari Daytona e più di Lamborghini Miura) e soprattutto una crescita della sua immagine a livello globale.

 

Il nome richiamava un vento, una tradizione iniziata nel 1963 con la Mistral e che si rinnova ancora oggi con l’attuale Ghibli, con Levante e – nella nuova era della Casa del Tridente – con l’imminente Grecale. Ghibli, va sottolineato, è un vento forte e caldo del Nord Africa, una scelta non casuale in quanto la vettura si caratterizza per la velocità e per il calore dei suoi contenuti tecnici e stilistici capace di accendere la passione per le forme e le prestazioni di questa gran turismo.

 

Presentando 55 anni fa la prima Ghibli, Maserati propose una vettura dall’impronta sportiva, ma non esasperata. il motore era un nuovo progetto basato sull’esperienza del ben noto 8 cilindri della Mexico, capace di erogare 330 Cv nella versione 4,7 litri, a cui fece seguito nella Ghibli SS una versione ancora più prestazionale da 4,9 litri. Per lasciare più spazio allo stile abbassando l’altezza del cofano, il motore venne dotato di carter secco, soluzione prettamente di stampo racing, che lo vedeva montato sul telaio, di tipo tubolare, in posizione molto bassa.

 

Questa soluzione permetteva di conferire alla vettura quel caratteristico aspetto aggressivo e slanciato che fu uno dei cardini del suo successo. Il design era stato affidato alla Ghia che in quel periodo si serviva dell’opera creativa e progettuale di Giorgetto Giugiaro.

Il dettaglio stilistico più significativo, che segna un deciso cambiamento con i modelli che precedevano Ghibli, era l’integrazione dei volumi: non c’è distinzione tra corpo vettura e abitacolo, che non è né separato né sovrapposto, bensì allineato in un’unica superficie.

Altra novità di stile è il frontale, originale per Maserati: i fari sono a scomparsa e la calandra è sottilissima occupando tutto il frontale della vettura.

 

Al centro rimane, pur se in dimensioni ridotte, l’iconico logo del Tridente. La vista laterale valorizza la linea slanciata di Ghibli: cofano lungo e basso, parabrezza molto inclinato, proporzioni perfette senza alcun decoro superfluo. Il montante triangolare posteriore assume una propria identità, diventando un elemento iconico ripreso anche in successivi modelli della Casa del Tridente.

 

Nella Ghibli del 1966 i cambiamenti rispetto al passato si notano, inoltre, nella concezione degli interni a due posti secchi, laddove le strumentazioni sono integrate in un disegno d’insieme che prevale sui singoli elementi.

Il risultato è una gran turismo che si mantiene fedele allo stile esclusivo, di lusso, potenza, confort, ma con un’anima racing, che da sempre contraddistingue le vetture Maserati. In tutto, tra il 1967 e il 1972, sono state prodotte oltre 1.200 Ghibli coupé e 128 Ghibli Spyder (lanciata nel 1969). Un esemplare fu acquistato da Henry Ford (nipote del fondatore) che la fece esporre nella hall del Ford Product Development Center di Detroit, presentandola come ‘esempio da seguire e fonte di ispirazionè. Un’ispirazione che ha guidato anche alla Casa del Tridente, che nel 2013 ha deciso di presentare un nuovo modello, riproponendo il nome Ghibli per l’attuale berlina sportiva e iniziando così un’altra storia di successi.


Compie oggi 60 anni Jaguar E-Type. Fu prodotta dal 1961 al 1975 e presentata proprio sei decenni fa al Salone di Ginevra 1961 inaugurato il 16 marzo. La E-Type fu una vettura rivoluzionaria per la progettazione, le caratteristiche di guida e l’estetica; era in anticipo sui tempi. Il suo prezzo era più basso di quello delle vetture pari classe della concorrenza e questo aiutò le vendite che, nei 14 anni nei quali rimase in produzione, arrivarono a 70.000 vetture.
Nel 2004 la rivista statunitense Sports Cars International la mise al primo posto tra le Top Sport Cars degli anni sessanta. Dal 1996 una Jaguar E Type OTS (open two seater) prima serie, è entrata a far parte della collezione permanente del New York City Museum of Modern Art, riconoscimento concesso a sole sei auto nella storia della mobilità internazionale.
Nel marzo 1961 la versione coupé (nel linguaggio Jaguar “Fixed Head Coupé” o “FHC”) fu presentata al Salone dell’automobile di Ginevra, mentre la roadster (altresì detta “Open Two Seater”) fu lanciata ad aprile dello stesso anno al Salone dell’automobile di New York.
Questa versione aperta fu introdotta per andare incontro ai gusti del mercato statunitense. Il modello fu costruito in tre differenti serie, indicate come Series 1, Series 2 e Series 3; ma gli appassionati e molti esperti riconoscono anche una Series 1 1/2., prodotta a cavallo tra Series 1 e 2. Furono presentate anche versioni speciali in un limitatissimo numero di esemplari: la versione Low Drag Coupé, un solo esemplare prodotto, e la Lightweight E-Type.
Quest’ultima versione doveva essere di 18 esemplari ma se ne realizzarono solo 12, dei quali uno andò distrutto e almeno due trasformati in decappottabile. Queste vetture speciali sono molto ricercate dai collezionisti per la loro estrema rarità. Nel 2014 la Jaguar ha deciso di mettere in produzione i 6 esemplari mai realizzati, ma ai quali era stato assegnato un numero di telaio e ricostruendo a mano da zero le vetture nel rispetto rigoroso delle specifiche originali.
Fu così raggiunto, a distanza di mezzo secolo, il numero di 18 esemplari inizialmente previsti inizialmente. In epoca più recente, la stessa Casa ha ideato la E-Type Zero, una E-Type d’epoca riallestita con motore e trasmissione elettrici, una modifica totalmente reversibile che la Casa mette a disposizione per i possessori del modello. Nella storia della produzione Jaguar, la E-Type ha sostituito la XK150 ed è stata sostituita dalla XL-S.

 

 

 

 

Cinque anni fa terminava la sua prima vita. Fine gennaio 2016: si concludeva l’epopea di una macchina nata nel lontano 1948, divenuta speciale e leggendaria per le sue misure enormi e per la capacità di adattarsi a ogni superficie. E’ la mitica LAND ROVER DEFENDER, di cui ora – nel febbraio 2021 – abbiamo la possibilità di testare il nuovo modello 110 e 90, oggi con telaio differente dal passato, non più a longheroni bensì monoscocca rinforzato, e motori moderni, ibridi e gasolio ultima generazione. E tra pochi giorni pure elettrici ricaricabili plug-in…

 

Ma torniamo alla storia. Dalla catena di montaggio di Solihull nell’inverno 2016 veniva prodotto l’ultimo esemplare dello storico dell’antica nostalgica Land Rover Defender, un veicolo 4×4 adatto per viaggiare su qualsiasi fondo, dall’asfalto al fuoristrada. Giungeva così alla conclusione la prima parte di un percorso che aveva preso il via nel 1947, quando Maurice Wilks, prendendo spunto dalle Jeep Willys impiegate durante il secondo conflitto mondiale, iniziò a tratteggiare il primo modello, presentato poi ufficialmente il 30 aprile dell’anno seguente ad Amsterdam.

 

Il mito Land Rover si è evoluto attraverso sette dinastie, scandite da modifiche prevalentemente rivolte al passo della vettura e all’aumento di cilindrata del motore. La prima serie si sviluppò lungo la decade 1948-58, ma già nei due anni iniziali arrivarono importanti modifiche. Nel ’49 venne introdotto il modello “Station Wagon”, con un rivestimento interamente in metallo, mentre, dodici mesi dopo, la trazione in presa con un sistema a ruote libere venne scartata a favore di un modello integrale inseribile. La fase iniziale risultò quella maggiormente sottoposta a ritocchi: nel ’51 fu la volta del passo lungo (107 pollici) e sei anni dopo venne introdotto il primo motore diesel a quattro cilindri.

 

Tra il 1958 e il 1961 prese il via la seconda serie con un cambio a quattro velocità e una trazione posteriore fissa. Sulle ruote anteriori era inseribile manualmente attraverso una levetta posta alla destra del cambio stesso. L’introduzione di nuovi dettagli, unita all’aumento di cilindrata del motore diesel, diede alla luce tre anni più tardi la Serie IIA, seguita una decade dopo dalla Serie III. Questa dinastia ebbe nel V8 Series III l’esemplare più particolare, mentre, a partire dagli Anni ’80, il Land Rover subì una nuova evoluzione.

 

Dal 1983 vide la luce il Land Rover 110, il cui nome fa riferimento ai 110 pollici di distanza tra gli assi, seguito ad un anno di distanza dal 90 e nel 1985 dal 127. Apparentemente molto simili ai loro predecessori, avevano le sospensioni a molla, trazione integrale permanente e interni più confortevoli che danno un tocco innovativo. A partire dal 1990 una nuova svolta, con l’assunzione del nome “Defender” al posto del Land Rover 127, anche per evitare fraintendimenti nel listino.

 

Negli ultimi anni sono state introdotte novità riguardanti principalmente il motore, come il Td5 e il modello omologato Euro 5. Le recenti regole legate alla sicurezza e all’impatto ambientale sono state determinanti nel far calare il sipario su una macchina divenuta unica in tutte le sue evoluzioni e poi rinata al salone di Francoforte del 2019. Con le presentazioni e l’arrivo sulle nostre strade nel 2020 nelle versioni classiche e nel 2021 in quelle ibride ed ecocompatibili.

 

Il Land Rover è stato prodotto in diverse serie, all’inizio indicate anche dalla misura del passo in pollici. Il veicolo “Land Rover” (90, 110 e 127) è chiamato dal 1990 “Defender”:

  • Serie I (1948-1958)
  • Serie II (1958-1961)
  • Serie IIA (1961-1971)
  • Serie III (1971-1983)
  • 90, 110 e 127 (1983-1990)
  • Defender commercializzato dal 1990 e seguito dal New Defender.
  • Land Rover Defender, dal 2020

 

  • * * * * *

 

LO SAPEVATE CHE…

 

La passione della regina d’Inghilterra Elisabetta II per il Defender l’ha portata a guidarne ben 30 diverse nella sua vita: al volante di tutte le versioni dal 1948 ad oggi, più le serie speciali della casa inglesi Land Rover.

The Queen si vanta di saper mettere mano a un motore meglio di un meccanico: contraddire Her Majesty Elizabeth Alexandra Mary, regina da oltre 69 anni e con 143 milioni di sudditi, è naturalmente impossibile. Ma non lo si può escludere, visto che Elisabetta II durante la Seconda Guerra Mondiale guidava i camion del Women’s Auxillary Territorial Service.

Questa è una delle tante curiosità di tipo automobilistico, legate ai Reali inglesi, contenute nel piacevole libro di Enrica Roddolo, grande esperta di sangue blu: I segreti di Buckingham Palace (Cairo). Tanto per iniziare: “The Queen” ha un vantaggio non indifferente: la patente è emessa “a nome di Sua Maestà”, quindi è l’unica persona di tutto il Regno Unito che non ha bisogno di superare alcun test di revisione (e in teoria manco ad avere la targa sull’auto) e ovviamente non corre il rischio di prendersi una multa.

Da palazzo reale hanno comunicato più volte la sua decisione di mollare il volante – del resto in aprile ha compiuto 94 anni – ma non viene mai esclusa la possibilità di vedere l’ennesima foto della regina a bordo di una Land Rover.

La prima Land Rover nei Royal Mews della regina – le antiche scuderie reali, ristrutturate in garage – è stata una Series 1 del 1953. Ma la sua nota passione è la Defender: ne ha avuti 30 esemplari. Stessa scelta della principessa Anna, di Filippo duca di Edimburgo, e di Kate quando accompagna i figli a scuola (ne ha una nera). Filippo, in comune con la figlia Anna, oltre alla passione per la guida, ha pure la tendenza alle infrazioni: l’abbaglio del sole e il conseguente incidente del 2019 gli hanno consigliato, a 97 anni, di abbandonare la guida.


Inverno 1996: nasce al salone di Ginevra la nuova Porsche Boxster. E a Zuffenhausen pochi giorni fa sono cominciati i preparativi per festeggiare come si deve i primi 25 anni di uno dei modelli di maggior successo della Casa tedesca.

Non erano anni facili per Porsche, gli anni Ottanta. Serviva una svolta, qualcosa di importante che riportasse i modelli della Casa di Zuffenhausen in cima alle wishlist degli appassionati di auto sportive. Vennero esplorate diverse possibilità, compresa quella di una grande berlina a quattro porte contraddistinta dal codice di progetto 989: venne realizzato un prototipo, ma non superò le fasi di approvazione.

Per il responsabile del dipartimento di Ricerca e Sviluppo, Horst Marchart, serviva piuttosto guardarsi indietro, alla ricerca delle proprie origini, per recuperare appeal e profitti.

Porsche aveva una grande tradizione di roadster a motore centrale – la 550 Spyder, la 718 RSK, la 914/6 – e così fu dato il via libera allo sviluppo di una biposto sportiva a motore centrale. Che si concretizzò nel 1993, quando al Salone di Detroit, in gennaio, venne svelata Boxster Concept: linee mozzafiato, dettagli pazzeschi, una purezza di stile che infiammò il pubblico. Come sia andata a finire, lo sanno tutti: al Salone di Ginevra del 1996, appunto, la Porsche lancia la versione di serie della Boxster.

Nel periodo 1996 – 1999 a spingere la Boxster è un motore a cilindri contrapposti da 2,5 litri, raffreddato a liquido e strettamente imparentato al 3,4 litri della futura 996, avente doppio albero a camme per ciascuna delle due bancate, 6 cilindri e testate a 4 valvole per cilindro, in grado di sviluppare 204 CV che trasferisce alle ruote posteriori attraverso un cambio manuale a 5 marce (di serie) o un cambio automatico – sequenziale Tiptronic, sempre a 5 marce, su richiesta.

Il telaio è analogo a quello che sarà utilizzato per la nuova 996 che entrerà in produzione nel 1998, opportunamente adattato per accogliere il motore centrale. L’utilizzo del maggior numero possibile di componenti in comune permette una cospicua riduzione dei costi di produzione.

Boxster 986 MkI, vista laterale – La capote è semiautomatica (sgancio manuale e movimento elettrico) in tessuto a tre strati, con un tempo per l’apertura o la chiusura di 12 secondi, tra i più bassi in assoluto per una roadster. I freni sono a disco autoventilanti, di serie su tutte le ruote, mentre i cerchi sono in lega da 16 pollici. La velocità massima dichiarata è di 245 km/h grazie soprattutto alla raffinata aerodinamica della vettura, dovuta all’attento studio dei flussi in galleria del vento ed al sottoscocca rivestito, come avviene sulle vetture stradali più sportive: il CX dichiarato è pari a 0,31 (valore destinato a calare negli anni sino a 0,29). L’accelerazione dichiarata dalla Casa da 0 a 100 km/h è di 7 secondi.

Porsche dichiara sin dall’inizio che la lubrificazione del propulsore è affidata al  carter secco cosiddetto “integrato”: il carter secco è utilizzato sulle auto da competizione e sulle vetture stradali più sportive per abbassare il baricentro della vettura e migliorare la lubrificazione del propulsore in curva. In realtà il sistema utilizzato sulla Boxster non è un vero e proprio carter secco, bensì si tratta di un sistema ibrido analogo ai tradizionali e più economici carter umidi, come peraltro avviene su tutta la produzione Porsche raffreddata a liquido (con le uniche eccezioni dei modelli più sportivi quali Porsche GT3 o i modelli Porsche 911 turbo 996 e 997 con propulsore da 3,6 litri con basamento derivato dalla Porsche 964).

La Boxster ripropone, praticamente identico sino ai montanti, l’avantreno della 996, compresi i discussi fari dalla forma nuova (ironicamente definiti dagli appassionati a “uovo fritto”), che verranno abbandonati con il modello 987, nonché le sospensioni anteriori con sistema Mc Pherson. Le sospensioni posteriori sono anch’esse derivate dal sistema MacPherson e quindi differenti rispetto alla 996, anche per via del motore centrale e non a sbalzo come sulla sorella maggiore.

Caratteristica peculiare della produzione Porsche è la presenza di uno specifico spoiler retrattile sulla coda: al fine di migliorare la tenuta di strada del retrotreno, a velocità superiori ai 120 km/h si alza, rimanendo in posizione finché il veicolo non scende a velocità inferiori a 80 km/h: pertanto a veicolo fermo o a bassa velocità resta celato alla vista, anche al fine di non modificare la linea della Boxster. Un apposito interruttore nell’abitacolo permette comunque di alzarlo o abbassarlo a piacimento.

Sin dalla prima versione propone inoltre due caratteristiche prese d’aria nella parte posteriore delle fiancate, indispensabili per alimentare il propulsore di aria fresca e permettere lo sfogo di quella calda; sono in tinta con la carrozzeria e sono poste più in alto rispetto al prototipo del 1993 per evitare di intasarsi con il fango ed altri materiali che eventualmente potrebbero depositarvisi.

Il terminale di scarico è centrale ad uscita singola ovale. La Boxster monta di serie cerchi in lega da 16 pollici (in opzione da 17).

La produzione, inizialmente effettuata dalla Porsche presso gli stabilimenti di Stoccarda per primi 30.000 esemplari circa, venne in gran parte demandata – sin dal settembre 1997 – alla finlandese Valmet Automotive a causa della elevata domanda; propulsore e cambio erano comunque prodotti per intero a Stoccarda.

 

Nel mese di marzo 2021 ricorre dunque il 25 anniversario della Boxster type 986. Porsche ha già iniziato a scaldare il “flat six” di 2.5 litri da 200 CV della prima Boxster e nel corso del 2021 ci saranno numerose occasioni per parlare di questa straordinaria sportiva, la cui dinamica di guida è ancora attuale e coinvolgente, ma che non è stata ancora premiata dal mercato, com’è accaduto per la 911.

Abbiamo ascoltato due dei “padri” della Boxster, Horst Marchart appunto, e Grant Larson, il designer americano autore delle forme della concept car.

Il presupposto per il via libera alla produzione era che la Boxster utilizzasse molte parti della futura 911/996, ha spiegato Marchart, e la scelta del motore a sei cilindri, benché di cilindrata ridotta, venne presa per distinguersi dalla concorrenza che utilizzava prevalentemente unità propulsive a quattro cilindri. Il budget era limitato e così, anche il nome venne definito internamente – è, come tutti sanno, la crasi di boxer e di roadster – evitando i costi di un’eventuale agenzia di naming.

Larson, dal canto suo, ha raccontato come la linea della vettura di serie abbia mantenuto gli stilemi dello spettacolare prototipo, con i parafanghi anteriori più alti del cofano e, soprattutto, il terminale di scarico centrale, che all’epoca nessuno dei concorrenti aveva ancora osato adottare. Entrambi, infine, hanno concordato che tra tutte le generazioni, la prima 986 sia quella più riuscita da un punto di vista stilistico.


Il 27 dicembre 1945, nella fabbrica tedesca di Wolfsburg iniziò la produzione di serie della berlina Volkswagen Typ 1. E con essa la storia di successo dell’intera Volkswagen. L’origine di questo modello si deve ai nazisti, che vollero farne un progetto di prestigio del regime, ma dal 1939 lo stabilimento che doveva costruirlo venne convertito alla produzione bellica. Fino alla fine della seconda guerra mondiale, infatti, appena 630 unità avevano lasciato la fabbrica della Volkswagen. Il modello, intanto, nel 1938 era stato rinominato KdF-Wagen, ossia “l’auto della forza attraverso la gioia”, in quanto la sua realizzazione era gestita dall’omonima organizzazione ricreativa nazista, parte del Fronte dei Lavoratori Tedeschi.

 

Tuttavia, fu solo sotto l’amministrazione fiduciaria inglese che a Wolfsburg iniziò la storia di successo del Maggiolino Volkswagen, grazie alla straordinaria visione strategica del Maggiore Ivan Hirst.

A Wolfsburg, la produzione di serie dell’automobile civile Volkswagen (identificata internamente come Typ 1 e destinata a diventare conosciuta nel mondo come Maggiolino) iniziò solo dopo la fine della seconda guerra mondiale, il 27 dicembre 1945. Grazie all’amministrazione fiduciaria assunta dal Governo Militare Britannico nel giugno 1945 sulla Volkswagenwerk GmbH, gli inglesi intendevano utilizzare la Volkswagen Typ 1 per funzioni di trasporto urgenti necessarie nella loro zona di occupazione. Fu il pragmatismo britannico che in sostanza protesse la fabbrica dalla imminente demolizione.

L’ufficiale residente Maggiore Ivan Hirst ebbe un ruolo chiave in questi sviluppi. Furono la sua lungimiranza e la sua inventiva che gli permisero di avviare la produzione di automobili negli anni dei razionamenti, caratterizzati dalla mancanza di materie prime. Con il suo entusiasmo per la tecnologia e le auto, la sua concretezza e la determinazione, riuscì a trasformare uno stabilimento bellico in un’industria civile in un tempo molto breve. Già ad agosto del 1945, il Governo Militare Britannico aveva commissionato un ordine per 20.000 vetture. L’avvio della produzione fu un segno visibile di un nuovo inizio e di speranza per una fabbrica che, per la fine della seconda guerra mondiale, era stata in gran parte distrutta.

 

La produzione della Typ 1 nella fabbrica di Wolfsburg – Questa soluzione era in linea con la successiva politica inglese in Germania, che vedeva la sicurezza materiale e le prospettive future per la popolazione come elementi fondanti nello sviluppo delle strutture democratiche. Così, la democrazia trovò il suo sbocco anche all’interno della Volkswagenwerk: il 27 novembre 1945, il Consiglio di Fabbrica eletto con una votazione democratica si riunì per la propria assemblea costitutiva. Ciononostante, ci furono molti problemi nel fornire ai lavoratori cibo e alloggio, inoltre la produzione era rallentata dalla scarsità di materie prime e forniture energetiche.

A dispetto di tutte queste difficoltà, le prime berline Volkswagen lasciarono la linea di produzione poco dopo Natale: un regalo ad appena otto mesi dalla fine della guerra. Per la fine del 1945, erano state prodotte 55 vetture. Dal 1946, divennero circa 1.000 le auto costruite ogni mese: non era possibile realizzarne di più a causa della scarsità di materie prime e forza lavoro. Fino all’autunno del 1949, gli amministratori fiduciari posero i fondamenti per la successiva crescita dell’Azienda: istituirono un sistema di vendita, l’assistenza ai Clienti e dal 1947 iniziarono a esportare la berlina Volkswagen. La decisione di sviluppare una fabbrica civile e di avviare la produzione di serie della Volkswagen Typ 1 fu il punto di partenza di una storia di successo unica. Grazie all’immediato riavvio, la Volkswagenwerk GmbH si trovò poi in una eccellente posizione iniziale quando arrivò la ripresa economica che seguì l’introduzione del Marco tedesco. Con il nome non ufficiale di Maggiolino, la berlina Volkswagen è diventata uno dei modelli di auto più popolari al mondo. La durata e le quantità della sua produzione hanno superato numerosi record: la Volkswagen ha smesso di costruirla in Messico solo nel 2003, dopo 21.529.464 unità fabbricate, di cui circa 15,8 milioni in Germania.

 

La storia del Maggiolino inizia dunque con la produzione di serie a Wolfsburg il 27 dicembre 1945 e termina nel 2019 con l’arresto della catena di montaggio nello stabilimento di Puebla. Attraversa il Novecento: un fenomeno industriale e sociale prima ancora che un’automobile, con un design ed uno spirito capace di varcare i confini di tutto il mondo. Sarà praticamente impossibile superare i record di questo modello prodotto in più di 23 milioni di esemplari, di cui circa 21 milioni e mezzo nella versione “classica” prima dell’arrivo nel 1998 della sua reinterpretazione in chiave moderna, il New Beetle.

Dalle prime 1200 alle cabriolet con il motore potenziato (che in Italia divenne il Maggiolone), fino alle 1600 a tre volumi, il Maggiolino continua a strappare un sorriso ovunque lo si incontri, nelle sue tante personalizzazioni, umanizzato sul grande schermo, parte della nostra quotidianità, uno di quegli oggetti “amici” a cui dare un soprannome per sentirli più vicini: “Beetle” nel Regno Unito, “Käfer” in Germania, “Escarabajo” in Spagna, “Coccinelle” in Francia. Senza dimenticare che il primo nome scelto da Adolf Hitler era Kdf Wagen, dalle iniziali della Kraft-Durch-Freude, la “Forza Attraverso la Gioia” organizzazione assistenziale del Terzo Reich che organizzava le vacanze per i lavoratori .

 

“Auto della Forza Attraverso La Gioia”: un nome che sembra quasi una profezia di successo e longevità per una storia iniziata nel 1934 con l’annuncio del Führer di una vettura non più privilegio esclusivo della classe benestante ma democratica, un po’ come era stato per la Ford T con cui Henry Ford aveva motorizzato l’America. Un’auto che potesse trasportare cinque persone – o tre soldati e un mitragliatore – ad un prezzo non superiore ai 1000 Reichsmark. L’incarico di realizzarla venne affidato a Ferdinand Porsche, per costruire la fabbrica vennero espropriate le terre del conte Von Schulenberg in Bassa Sassonia nei pressi del castello di Wolfsburg.

 

Una Maggiolino-mania dilaga in tutti i continenti e Volkswagen apre filiali in Brasile, Messico e Sud Africa. Il boom è negli Anni Sessanta, con gli Stati Uniti che diventano il più importante mercato straniero ed il record degli oltre 560 mila esemplari venduti nel 1968, il 40% della produzione totale. Anticonformista e divertente, il Maggiolino si trasforma in simbolo della cultura hippie, fotografato a Woodstock, ma allo stesso tempo amato dai più piccoli dopo il debutto di Herbie al cinema in The Love Bug – Un Maggiolino tutto matto – prodotto dalla Disney. Nonostante le migliorie introdotte negli anni, spesso in anticipo sui tempi, come il tettuccio apribile in Pvc idrorepellente, gli pneumatici tubeless e la verniciatura acrilica, negli Anni Settanta le vendite iniziano a calare, finchè nel 1978 la produzione europea cessa per far posto alla Golf e continuare in Messico. La brutta notizia è che anche a Puebla è calato il sipario per il “vochito” (come era soprannominato) e la casa automobilistica tedesca saluta il suo modello dopo una storia quasi centenaria; sulle note di una cover di “Let it Be” dei Beatles. La buona notizia è che difficilmente il Maggiolino in tutte le sue declinazioni sparirà dalle nostre strade, con centinaia di migliaia di esemplari ancora circolanti, determinati a rimanere tutt’altro che l’oggetto di nostalgici amarcord.

 


 

Nel dicembre del 1905 la L&K Voiturette A ha inaugurato la produzione automobilistica a Mladá Boleslav (Rep. Ceca) oggi sede principale di ŠKODA AUTO e centro di produzione del prossimo SUV 100% elettrico ENYAQ iV . ŠKODA AUTO ha celebrato nel 2020 i 125 anni dalla propria fondazione

 

Nel dicembre del 1905 Václav Laurin e Václav Klement presentarono la loro prima automobile, denominata Voiturette A. Dopo i successi ottenuti nella produzione di biciclette e motociclette sin dal 1895, iniziava allora una storia di successo nella produzione automobilistica, legata alla cittadina di Mladá Boleslav, dove oggi ha sede il quartier generale di ŠKODA AUTO e dove vengono prodotti numerosi modelli di successo, da FABIA alla gamma OCTAVIA, da KAROQ al nuovo SUV 100% elettrico ENYAQ iV. Nel solco della “ŠKODA 2025 Strategy” oggi ŠKODA AUTO sta organizzando la propria trasformazione da tradizionale costruttore di autoveicoli a “Simply Clever company for the best mobility solutions”.

La storia di successo di ŠKODA AUTO inizia nel 1895, con l’avvio da parte dei fondatori Václav Laurin e Václav Klement della produzione di biciclette. Nel 1899 alle due ruote a pedali si aggiunsero quelle a motore, con motori monocilindrici a benzina integrati nel telaio. Negli anni a seguire Laurin&Klement furono tra i pochi costruttori al mondo a offrire motociclette con motori bicilindrici a V e quattro cilindri in linea e ottennero successo sia tra i clienti sia nelle competizioni. La produzione delle biciclette fu gradualmente abbandonata per concentrarsi sullo sviluppo tecnico e sulla preparazione alla produzione di un nuovo veicolo allora agli albori, l’automobile. Nel 1905, la società impiegava già 355 persone, su una superficie di 9500 metri quadri e con l’utilizzo di 206 macchine utensili.

Nello stesso anno fu presentata la Voiturette A, prima automobile L&K, sviluppata nel corso dei 5 anni precedenti. La versione definitiva, pronta per la produzione in serie sarebbe arrivata nella primavera del 1906, in occasione del Motor Show di Praga. Costruita su un robusto telaio a longheroni con assali rigidi e molle a balestra, montava un motore da 1.0 litri V2 raffreddato ad acqua, con una potenza massima di 7 CV. Il cambio a tre marce trasmetteva il moto alle ruote posteriori attraverso un giunto cardanico. Il peso complessivo era di circa 500 kg. Illuminazione, capote e diversi layout per i sedili e lo spazio per il carico erano disponibili in opzione.

La produzione, dal 1905 al 1907 è stata di 44 unità, di cui cinque sopravvivono ancora oggi. Una di questa è esposta in modo permanente presso lo ŠKODA Museum di Mladá Boleslav. Anche dopo l’ingresso di ŠKODA nella società e durante gli anni di nazionalizzazione dell’impresa in seguito alla Seconda Guerra Mondiale, Mladá Boleslav è rimasta il fulcro della produzione automobilistica dell’azienda, raggiungendo nel 1964 il traguardo delle 100.000 automobili prodotte. Nel 1991, l’ingresso di ŠKODA nel Gruppo VW ha segnato la definitiva trasformazione del Brand da produttore locale, leader del mercato con circa 200.000 esemplari costruiti ogni anno, all’odierno ruolo di player globale presente in oltre 100 mercati, con una produzione che ha raggiunto gli 1,24 milioni di automobili nel 2019.

Oggi ŠKODA produce in Repubblica Ceca, Slovacchia, Cina, Russia, India e Ucraina.

Nel 2020 ŠKODA celebra i 125 anni dalla fondazione e offre una completa gamma di modelli frutto della più importante offensiva di prodotto della propria storia.


 La storia della Carrozzeria creata nel 1930 da Giovanni Battista ‘Pinin’ Farina ed in seguito gestita dal figlio Sergio e dai nipoti, fino all’attuale presidenza di Paolo Pininfarina, è estremante complessa. In questo nuovo volume pubblicato da Artioli Editore è raccontata da Daniele Buzzonetti, uno dei più preparati giornalisti esperti della storia dell’automobile.

In estrema sintesi l’epopea Pininfarina si può riassumere in una semplice definizione: ‘Uno sterminato esempio di genio italiano, unito a un rigore tipicamente piemontese’. Come concetto di fondo, ovviamente, perché gli avvenimenti e lo sviluppo dell’azienda, arrivata a produrre fino a circa 50.000 vetture all’anno (escludendo le concept car e i prototipi, realizzati per conto delle grandi Case, da sempre core business del marchio), occupano uno spazio non indifferente. Come è infinita la lista dei modelli, talvolta esemplari unici ma molto spesso piccole o grandi serie, tutte targate Pininfarina.

 

Per evitare la monotona dispersione di una analisi cronologica, le Case che hanno avuto un rapporto importante con la Pininfarina, sono state raggruppate nel libro di Daniele Buzzonetti, in capitoli separati: Ferrari, Lancia, Cisitalia, Maserati, Fiat, Alfa Romeo, Bentley-Rolls Royce, Innocenti e Peugeot. Altrettanti capitoli, con ovvie suddivisioni, comprendono i marchi americani e quelli inglesi.

 

Nel caso della Ferrari, i capitoli sono in realtà quattro, considerata la folgorante sequenza di prodotti, gestiti tra il Piemonte e Maranello, spesso con l’apporto pratico della Carrozzeria Scaglietti, a partire dalla fine degli Anni ’50. Anche le mitiche show car che per decenni hanno ‘illuminato’ i Saloni dell’auto sono state raggruppate in un unico capitolo. Naturalmente non manca lo spazio ai più recenti avvenimenti vissuti dalla Pininfarina, culminati con la presentazione della supercar Battista, dalle prestazioni esaltanti, ma totalmente green grazie ai motori elettrici.

Con oltre 500 fotografie (per lo più a colori, anche nel caso di modelli datati, per i quali sono state scelte immagini di vetture restaurate), è stata ricostruita la storia di un marchio, da sempre ai vertici, grazie a concetti tipicamente italiani: stile e bellezza.

 

320 pagine – 400 ill. a colori e b/n

ARTIOLI EDITORE 1899

 

* * * * *

 

LA STORIA DI PININFARINA

 

Sorta come una piccola attività artigianale dedita alla costruzione di carrozzerie su ordinazione di facoltosi clienti privati, grazie al finanziamento di una zia della moglie e al fattivo appoggio di Vincenzo Lancia, che per primo credette nelle intuizioni dell’amico Pinin Farina al quale poi fece carrozzare molte delle sue automobili, divenne negli anni un’industria con la capacità di offrire al mercato automobilistico progettazioni complete di autoveicoli e, più in generale, di mezzi di trasporto, concepiti anche con l’ausilio di ricerche ingegneristiche avanzate. Pinin Farina fu tra i primi a interessarsi concretamente di aerodinamica, e il figlio Sergio apportò all’industria un approccio più ingegneristico e meno empirico.

Nei primi anni di vita, fino allo scoppio della seconda guerra mondiale, la società si fece conoscere per la costruzione artigianale e in piccola serie di carrozzerie particolari progettate su meccaniche in primis del socio Vincenzo Lancia in particolare su Dilambda, dell’Alfa Romeo, della Hispano-Suiza e della FIAT.

È nel momento della prima ricostruzione postbellica che Pininfarina concepì la prima automobile di fama mondiale, la Cisitalia 202. Presentata nel 1947, fu la prima autovettura che ottenne l’onore di un posto in un museo, il MOMA di New York.

Da quel momento conosciuta in tutto il mondo, la Pininfarina ha disegnato lo stile di centinaia di autovetture, talune delle quali famose e rinomate. L’azienda è poi passata, a partire dal 1961, sotto la guida del figlio del fondatore, Sergio, designer di fama mondiale, che ha proseguito la ricerca sempre restando nel campo delle automobili.

Già negli anni cinquanta iniziò la collaborazione con case automobilistiche straniere, ad esempio la francese Peugeot con cui il rapporto continua anche ai giorni nostri.

Sempre della fine degli anni ’50 è anche la trasformazione da struttura artigianale ad una vera realtà industriale. L’evento di passaggio è la produzione per conto della Alfa Romeo di 27.000 Giulietta Spider nata in Pininfarina ispirandosi, per il design dell’auto, alla Lancia Aurelia B24.

Il decennio 1960-1970 è quello che segna la creazione di alcuni tra i modelli più famosi, come l’Alfa Romeo Spider Duetto, la Lancia Flamini, la Lancia Flavia coupé, la Dino 246 e le Fiat 124 Sport Spider, Dino Spider.

A partire dai primi anni ’60 a seguito del trasferimento nel nuovo stabilimento di Grugliasco, si riscontra un forte impegno nello sviluppo tecnologico e aerodinamico, prima con la creazione del CCD (Centro di Calcolo e Disegno) e, in seguito, con la costruzione di una galleria del vento in scala naturale, la prima in Italia per le autovetture e una delle poche allora esistenti al mondo. Grazie anche a queste nuove tecnologie escono Ferrari 365 Daytona, 308 GTB e 400, la Fiat 130 Coupé, la Lancia Montecarlo (che fu la prima auto ad usufruirne) e le Lancia Gamma Berlina e Coupé (da cui nacquero anche gli splendidi prototipi Lancia Gamma Olgiata (Station-coupé), T-Roof (spider) e Scala (berlina 3 volumi). Oltre che per le automobili, nella galleria del vento vengono sperimentate nuove soluzioni anche per i caravan. È del 1978 lo studio aerodinamico per la “Futura” della Nardi Caravans, prima roulotte costruita con il frontale inclinato per migliorare il CX.

Sempre a cavallo tra gli anni 70 e primi anni 80, la Pininfarina strinse un accordo con la Lancia, in nome dell’antico legame tra le 2 case torinesi, anche per lo sviluppo di design ed aerodinamica delle sue sportive che in quell’epoca gareggiavano in pista e nei rally: tra queste vanno ricordate la Lancia Beta Montecarlo Turbo, la Lancia LC1, Lancia LC2, Lancia 037, Lancia Delta S4 e i prototipi Lancia ECV e ECV2

Dalla produzione di sole carrozzerie su telai di altri, l’azienda passò alla costruzione di intere vetture come la Fiat Campagnola e l’Alfa Romeo 33 Giardinetta. Nel frattempo strinse rapporti con ulteriori costruttori internazionale come la Honda e la Jaguar.

Nel 1986 l’azienda decide un ulteriore salto di qualità con la quotazione delle sue azioni in borsa, mentre le sue attività produttive sono rivolte verso altri modelli di automobile, tra i quali si possono citare: Ferrari Testarossa, Alfa Romeo Spider, Fiat Fiorino, Lancia Thema Station Wagon e molte Peugeot. Per quanto riguarda il reparto design e progettazione sono di questi anni nuovi accordi all’estero con Daewoo, Cadillac (ad esempio la Cadillac Allanté), Bentley e Mitsubishi, nonché il disegno delle serie x05 e alcune x06 della Peugeot, Alfa Romeo 164, Ferrari 288 GTO, Ferrari F40 e Fiat Coupé.

Questi primi anni del secolo sono dedicati ad altri modelli importanti e conosciuti, la Hyunda Matrix, Ferrari 575M Maranello e Ferrari Enzo, Mitsubishi Pajero Pinin, Alfa Romeo GTV, oltre che a modelli unici come la Ferrari P4/5.

Come molte altre aziende di design automobilistico, oltre alle vetture poi entrate in produzione di serie, la Pininfarina ha presentato ai vari saloni delle vetture concept car tra le quali si possono segnalare la Ferrari Modulo del 1970, la Ferrari Rossa Concept del 2000 e la Maserati Birdcage 75th del 2005.

La mattina del 7 agosto 2008, Andrea Pininfarina, presidente e amministratore delegato della storica carrozzeria torinese, muore sul colpo in un incidente stradale a Trofarello, nei pressi del Centro Stile di Cambiano, schiantandosi con il suo scooter in un’auto sbucata da una via laterale. Gli Succede alla presidenza dell’azienda il fratello Paolo.

Nei primi giorni di dicembre 2008 il designer italo-statunitense Jason Castriota, è passato alla carrozzeria Bertone diventandone direttore stilistico. Castriota per Pininfarina realizzò molte auto fra cui la Ferrari P4/5, la Maserati Birdcage 75th, Rolls Royce Hyperion, e collaborò alla realizzazione di Maserati GranTurismo, Ferrari 599 GTB Fiorano

Sempre creazione della carrozzeria torinese è la Ferrari 458 Italia, presentata in anteprima nel luglio 2009 e destinata al Salone dell’automobile di Francoforte dello stesso anno per la presentazione ufficiale.

Il 1º aprile 2011 il designer Fabio Filippini viene nominato Direttore Design e assume la guida di un team che conta un centinaio di creativi e progettisti.

Il 3 luglio 2012 viene a mancare Sergio Pininfarina, che ha guidato la crescita dell’azienda nell’ultimo mezzo secolo (1961-2001). Sempre nel 2012 Pininfarina stringe un accordo con la cinese South East Motor per realizzare il design di una gamma di modelli destinati alla produzione; il primo frutto della collaborazione è la crossover DX7, medio-compatta che viene presentata nel 2015 dopo un lavoro di circa 3 anni ed entra in produzione per il mercato locale. A seguire viene presentata la DX3, crossover compatta sempre destinata alla Cina.

Il 14 dicembre 2015 viene comunicata la cessione dell’azienda], in grave insolvenza, al gruppo indiano Mahindra & Mahindra al prezzo di 1,10 euro per azione: allo stesso importo viene l’OPA obbligatoria senza però raggiungere l’obiettivo del delisting del titolo.

 


Tra i grandi uomini che hanno fatto la storia della Marca Citroën e che più in generale hanno segnato la storia dell’automobile, c’è Paul Magès, il padre delle leggendarie sospensioni idropneumatiche. Fu collega del designer varesino FLAMINIO BERTONI in Citroen.

Personaggio vulcanico, entrò nel 1942 nel team di Andre Lefebvre per studiare un nuovo sistema di sospensioni per la 2CV che sarebbe stata lanciata sul mercato pochi anni dopo. Concepì le innovative sospensioni idropneumatiche che avrebbero equipaggiato nel 1954 la Traction Avant 15 Six H e poi successivamente molte altre vetture Citroën, da DS a modelli come GS, SM, CX, Xantia.

Riuscì ad ottenere quel leggendario bilanciamento tra tenuta di strada e comfort a bordo che ancora oggi contraddistingue le vetture Citroën.

 

Paul Ernest Mary Magès nacque ad Aussois, in Savoia, il 9 marzo 1908. Nell’agosto del 1925, dopo le scuole professionali, venne assunto, diciassettenne, presso Citroën, come disegnatore.

Magès era un personaggio dalla personalità eclettica: oltre a svolgere il suo lavoro con eccezionale rapidità e precisione, suggeriva continuamente nuove idee e soluzioni; come quando, alla fine degli anni ’20, propose una riorganizzazione completa del reparto “Gutenberg” (dal nome della strada che lo attraversa) della fabbrica di quai de Javel, dove venivano prodotti i motori.

André Citroën in persona lo nominò capo della programmazione di quel settore, ma lui non si fermò e ne riorganizzò altri due: la ferratura e la produzione degli impianti elettrici. Paul Magès aveva solo 22 anni.

Nel 1934 divenne vice-responsabile del delicatissimo dipartimento trasporti. Due anni dopo ristrutturò il reparto riparazioni e nel 1938, alla vigilia della Seconda Guerra Mondiale, fu posto a capo del Super Controllo, la struttura che si occupava di sorvegliare ogni dipartimento tecnico dell’azienda. In quegli anni, Citroën era ormai diretta da Pierre Jules Boulanger, che nel frattempo ne era diventato anche presidente dopo la scomparsa del fondatore, avvenuta nel luglio del 1935.

Sarà proprio Boulanger, nel settembre del 1942, a notare la genialità di Magès e ad invitarlo ad unirsi al gruppo di progettisti che ruotava attorno ad Andre Lefebvre, l’Ingegnere che stava progettando le future Citroën: la TPV e la VGD, ovvero le future 2CV e DS.

Magès aveva già fatto pratica con l’idraulica: per il furgone TUB (Type Utilitaire B), presentato poco prima della guerra e prodotto in pochissime unità, e per i veicoli industriali pesanti Citroën, Magès aveva studiato un sistema di regolazione automatica della frenata in funzione del carico; dispositivo che verrà ri-utilizzato, perfezionato, su altri veicoli Citroën.

Nel gruppo di Lefebvre, il primo incarico per Paul Magès fu quello di studiare una sospensione innovativa per la futura 2CV. Quando si parla di sospensioni, l’obiettivo è quello di conciliare tenuta di strada e comfort.

Se una sospensione è confortevole, il rischio è che su strade sconnesse le ruote non restino costantemente aderenti al fondo stradale, comportamento che risulterebbe pericoloso nelle curve. Tuttavia, se si irrigidiscono eccessivamente gli ammortizzatori, ogni minima asperità potrebbe andare a compromettere il comfort dei passeggeri. Serve un compromesso. Lo stesso cercato dai costruttori di carri a cavalli ed ancora lo stesso desiderato da chi faceva automobili negli anni ’40.

Si dice che nell’ufficio di Paul Magès campeggiasse una scritta che recitava “tutti credevano che fosse impossibile, tranne un imbecille che non lo sapeva e l’ha fatto”.

Paul Magès pensava che tutto fosse possibile e che semplicemente fosse necessario studiare un modo per farlo. E lo fece: nel 1944, dopo due anni di progetti ed esperimenti che proseguivano anche sotto ai bombardamenti, era pronta la prima automobile dotata della nuova, rivoluzionaria sospensione inventata da Paul Magès: una 2CV!

Magès aveva seguito il consiglio che Lefebvre dispensava quotidianamente a tutti i suoi collaboratori: era partito da un foglio bianco, affrontando il problema della sospensione di un autoveicolo come se niente fosse mai stato sviluppato in passato.

Per prima cosa, aveva scelto un nuovo elemento elastico: non più molle o balestre metalliche, ma un pallone pieno di gas.

Il gas, a differenza del metallo, non è soggetto a “pendolarità”: se si comprime una molla e poi la si rilascia, questa oscillerà un po’ di volte prima di tornare alla sua posizione originale. È quello che succede a molle e balestre se non si interpone un ammortizzatore. Più duro è l’ammortizzatore, migliore è la tenuta, perché l’auto ha una limitata libertà di escursione e quindi rimane maggiormente aderente al fondo stradale. Ma l’eccessiva durezza dell’ammortizzatore farà sì che le asperità della strada vengano trasmesse al veicolo senza essere filtrate, a discapito del comfort di bordo.

Questo non accade con un gas perché quando si ri-espande dopo essere stato compresso, tornerà al suo volume originale, senza oscillazioni.

Non solo: si otterrà così una sospensione “autoregolante”. Se si appoggia un chilo di peso sopra una molla, questa si abbasserà, per esempio di 1 centimetro. Se il peso diventa di 2 chili, la molla si abbasserà di 2 centimetri e così via, sino ad arrivare a chiudersi su stessa, annullando l’azione della sospensione.

Invece, un gas oppone una resistenza maggiore man mano che viene compresso: sotto il peso di 1 chilo si schiaccia di 1 centimetro, sotto a 2 chili si schiaccia di un 1 centimetro e mezzo, con 3 chili di un centimetro e settantacinque e così via. Come nel paradosso di Zenone, la sospensione che poggia su un gas diverrà sempre più rigida via via che viene caricata, ma la comprimibilità non arriverà a zero se non con carichi inverosimili quanto praticamente impossibili.

Ora entra in gioco il secondo elemento della sospensione idropneumatica: il liquido.

È chiaro che non sia possibile posizionare quattro palloncini tra l’auto e le sue ruote; diventa quindi necessario capire come collegare le sacche di gas agli assali della vettura. La soluzione è relativamente semplice: usare dei pistoni pieni di un liquido che va a sua volta a comprimere il gas, contenuto in sfere, dove un diaframma evita che il liquido si mescoli con il gas.

Così funziona la prima 2CV idropneumatica: quattro sfere (una per ruota) contengono del gas che è diviso dal liquido tramite una membrana di sughero. Sulla carta sembrava tutto giusto. Il problema era che il sughero non resisteva alla pressione e andava in briciole alla prima buca sull’asfalto. E nel 1944 le buche per strada certo non mancavano. Non potendo coprirle tutte, bisognava sostituire il materiale di cui era fatto il diaframma, e l’esperienza della Michelin con la gomma in questo caso fu preziosissima.

I risultati ottenuti da Paul Magès furono così sorprendenti che venne incoraggiato a proseguire nel suo progetto e l’azienda gli concesse alcuni collaboratori che si occuparono a tempo pieno della nuova sospensione.

Pierre Jules Boulanger, però, aveva fretta di lanciare la TPV (verrà presentata nel 1948) e per la sospensione scelse un’inedita configurazione: molle elicoidali ed ammortizzatori a frizione, con interazione tra sospensione anteriore e posteriore, schema che caratterizzerà le piccole di casa Citroën (2CV, AMI, Dyane, Méhari e derivate commerciali), restando sostanzialmente invariato fino all’ultima 2CV, prodotta il 27 luglio del 1990.

La prima applicazione pratica di quella sospensione idropneumatica che avrebbe caratterizzato le stradiste Citroën per i successivi sessant’anni arrivò nel 1954 con il lancio della Traction Avant 15 Six H, dove la “H” significava proprio Hydropneumatique. La soluzione scelta fu quella ibrida di sospensioni tradizionali davanti e idropneumatiche autolivellanti dietro, dove la vettura era più soggetta alle oscillazioni dovute al carico. Un trionfo! Stampa e utenti lodarono in coro la nuova sospensione dallo straordinario molleggio che assorbiva meravigliosamente gli ostacoli e manteneva la vettura orizzontale indipendentemente dal carico.

Dall’anno successivo, il 1955, la prima auto a beneficiare della nuova sospensione sulle quattro ruote fu la DS19 e, dal 1970, una quantità di altri modelli, come GS, SM, CX, GSA, BX, XM, XANTIA, C5 e C6, dalle ammiraglie alle “medie”.

Paul Magès, scomparso nel 1999 all’età di 92 anni, fu anche l’autore di meraviglie tecnologiche come lo sterzo Di.Ra.Vi. che ha equipaggiato SM, CX e le versioni V6 di XM dimostrando in un’epoca dove l’elettronica non era ancora in grado di svolgere con sicurezza determinate funzioni, che l’unico limite alla volontà è la propria fantasia. E a Paul Magès la fantasia, la costanza, la fermezza nelle proprie convinzioni, certamente non facevano difetto.


  • 1
  • 2